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sabato 20 gennaio 2018

Addio ad Anna Campori del Corsaro Nero


 © ANSA
 

           Attrice aveva 100 anni, lavorò anche con Totò, Steno e Corbucci

Fonte: Ansa.it
ROMA, 19 GEN - Si è spenta a 100 anni nella sua casa di Trastevere dove era nata durante il primo conflitto mondiale a Roma l'attrice Anna Campori circondata dall'affetto della sua grande famiglia. Lo annuncia all'ANSA la figlia Alessandra.
    Campori che ha lavorato fin da giovanissima formando un lungo sodalizio con Totò, e tanti attori e registi, ha avuto insieme al marito Pietro De Vico, morto nel 1999 un grandissimo successo come protagonista di una televisione degli anni 60 in una commedia musicale innovativa durata molto che appassionava i ragazzi ma anche gli adulti: "Giovanna, la nonna del Corsaro Nero" tanto lungo nel tempo quanto particolare, "di cui, oggi non è rimasto quasi nulla in quanto le puntate andavano in diretta", spiega Alessandra. Campori lunga carriera nel teatro di rivista cinema e Teatro, un lungo sodalizio con Totò. Ma ha lavorato con Rascel, Panelli Steno e Corbucci, Dino Risi. Nel 2013 un cammeo nel film di Daniele Lucchetti Anni Felici. I funerali Roma, il 20/1 alle 15, a San Francesco a Ripa

 
 
 


venerdì 19 gennaio 2018

AL TEATRO DEL GIULLARE DI SALERNO E LA REGIA DI BRUNELLA CAPUTO“SMITH & WESSON DI ALESSANDRO BARICCO


Fonte: www.lapilli.eu
di Maria Serritiello
A distanza di una settimana, al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, Brunella Caputo, regista, attrice e scrittrice, è passata, con invariata valentia, dal dirigere lo spettacolo “Vita quotidiana dei Bastardi di Pizzofalcone” di Maurizio de Giovanni, a “Smith & Wesson, un pezzo teatrale di Alessandro Baricco. Con lei, in una straordinaria caratterizzazione dei personaggi, Andrea Bloise, Renato Del Mastro, Teresa Di Florio e Cinzia Ugatti.  Il testo pubblicato per la prima volta nel 2014, si compone in due atti, che l’adattamento della regista  concentra in quadri, annunciati dal buio totale, in scena.
Tom Smith e Jerry Wesson, per circostanze fortuite s’incontrano in un luogo fantastico, alle cascate del Niagara e l’anno è il 1902. Si aggiunge a loro, una giovanissima giornalista ventitreenne di nome Rachel Green, desiderosa di scrivere una storia sensazionale, altrimenti la redazione del San Fernando Chronicle la licenzia. Perché sia arrivata fin là, per scrivere lo si capisce dalla grandezza delle cascate, ma anche dai tanti visitatori che vi trascorrono la luna di miele. Nel posto magico ci sono anche suicidi e Wesson, ripetendo il lavoro di suo padre, è l’unico in grado di ripescarli, naturalmente morti. Smith dal canto suo, compila mappe per poter, attraverso il tempo trascorso, fornire dati metereologici. Insomma un terzetto insolito, ma ben assortito per darsi all’immaginazione e all’avventura. Il quarto personaggio, la signora Higgins, sempre nominata nei dialoghi dei tre, mai apparsa e ritenuta, dai due una poco di buono, si mostra nel finale, concludendo la storia con saggezza e spunti di riflessioni.
Lo spettacolo spalmato in due serate della scorsa settimana è la conferma che pur cambiando genere e significato, Brunella Caputo riesce a tener desta l’attenzione degli spettatori, fino alla chiusura definitiva del sipario. Il pezzo, giocato su variazioni, non solo di linguaggio ma anche di ritmo, di costruzione dialettica e di considerazioni filosofiche esistenziali che, pur sapendo molto di outing emozionali, rivela i disagi dei tre personaggi, dal momento in cui si riscoprono nudi di fronte ai propri errori ed a rimpiangere una vita che poteva essere diversa e che non lo è stata I tre protagonisti del primo tempo, ai limiti della superficialità isterica di Tom o del tono scanzonato di Jerry o della voglia matta d’ inseguire l’immortalità o meglio un’inutile notorietà di Rachel Green, fa seguito una ieratica signora Higgins, a testimoniare il proprio malessere, per aver perso le occasioni che la vita le ha concesso, per costruirsi una vita diversa e a tracciare i binari di una moralità ancestrale lontana mille miglia dalla moralità attuale, figlia dell’ ignoranza e della vacuità emozionale e di idee. La vituperata signora Higgins (Cinzia Ugatti ) appare al lato e fuori dal palcoscenico, non più di dieci minuti, nella sua camicia di seta bianca su di un pantalone nero ed è subito classe, stile ed elegante recitazione, una caratterizzazione perfetta. Tutt’altra cosa è Rachel, (Teresa Di Florio) fragorosa, futile, leggera, bravissima nella sua puntuale ed inopportuna goffaggine, propositiva per un progetto idealizzato, ma per niente preparato, finalizzato ad un obiettivo assolutamente fuori luogo e che ha dentro di sé il germe della tragedia annunciata. Rachel si lancia spudoratamente verso la rovina, incapace d’intuirla, ha solo qualche incertezza per la claustrofobia che di sicuro la coglierà all’interno della botte e così il destino sarà compiuto. Esso si consuma, nel clamore della stupidità e ne viene affidato il ricordo a chi pur avendo avuto la possibilità d’ impedirne il passaggio all’atto non l’ha fatto. E allora a niente è servita la bizzarra e nevrotica mania di Tom (uno splendido ed inappuntabile (Andrea Bloise), che ha fatto dei suoi interventi dialogici dei capolavori di velocità linguistica, oltre all’espressività e ai cambi d’interpretazione, nell’affidarsi sterilmente alla raccolta dei dati, elegante e quasi snob, o la trasandatezza per certi versi fastidiosa e insolente di Jerry, (Renato Del Mastro) perfetta la sua caratterizzazione di un personaggio alla deriva, molto abilmente sorretto dalla vena del clochard, la sua capanna, infatti, ne ha tutte le caratteristiche, pronto solo a dormire o ad etichettare la Signora Higgins e a subire le sfuriate verbali del suo compare occasionale.
Sul testo “Smith & Wesson” di Alessandro Baricco, ovvero sul nesso di causalità, sulla sua presunta esistenza, e sulla sua frequente in-esistenza, bisogna, una volta per tutte, convincersi che il filtro, che noi umani spesso adottiamo nell’approcciarci al presunto mondo reale è e rimane sempre e solamente un nostro filtro che può avere, come non averlo, un riscontro obiettivo, volesse solo il fatto che la realtà “reale” è inesistente. Ed ancora si semina, si raccoglie e non c’è nesso tra una cosa e l’altra, “…T’insegnano che c’è, ma…non so, io non l’ho mai visto! Accade di seminare, accade di raccogliere, tutto li’…la saggezza è un rito inutile e la tristezza un sentimento inesatto, sempre”. Queste le parole dello scrittore Alessandro Baricco quando, nel finale, fa parlare la Signora Higgins. La tristezza elegiaca gli suggerisce la mesta conclusione “…Seminammo con cura, tutti, quella volta, seminammo immaginazione, follia e talento. Ecco cosa abbiamo raccolto, un frutto ambiguo: la luce bella di un ricordo e il privilegio di una commozione che per sempre ci renderà eleganti e misteriosi. Voglia il cielo che questo basti a salvarci, per tutto il tempo che ci sarà dato, ancora.”
Molto interessante è l’intervento della regia di Brunella Caputo nel rendere l’afflato filosofico della seconda parte, preparato da una prima, per certi versi solo introduttiva, perché potesse essere esaltato la seconda, tutta centrata sulla figura di quella signora Higgins, tante volte vituperata e diffamata, che si fa portavoce, sia pure a mo’ di un proprio atto di contrizione, della filosofia dell’autore, laddove dice che certe cose accadono e basta. La pièce riesce agile, snella, molto gradevole e soprattutto senza perdere la pretesa dell’autore di dire la sua in merito all’argomento principe del cosa sia la vita e la fede e la funzione della letteratura tutta. Indovinatissima è la scelta musicale di Virna Prescenzo, che sorregge il tutto, un plauso incondizionato va a lei, sia per le luci, che per aver preferito un insolito Beethoven, tanto da essere similare a Mozart.
Maria Serritiello
 

lunedì 15 gennaio 2018

Emanuela e Mirella, la festa dei 50 anni: una verità scomoda e il dovere della memoria







Fonte :L'Agone .Il Giornale della Tuscia Romana

di Fabrizio Peronaci

Riceviamo e pubblichiamo questa lettera di Fabrizio Peronaci, giornalista del Corriere della Sera, esperto del caso Orlandi e autore di libri-verità (ultimo “La tentazione”, 2017)



Caro direttore,

Nell'infinito rosario di trame e misteri che ha scandito la storia recente del nostro Paese, questa non s’era mai sentita: una festa di non-compleanno, per ricordare a tutti che due nostre concittadine strappate alle famiglie nell'età più bella, quando ogni sogno sembra possibile, oggi avrebbero 50 anni. Mezzo secolo, una nata sotto il segno del Capricorno, l’altra della Bilancia: donne adulte, magari con qualche ruga, ma sempre belle, dolci, amate. Solo che a Emanuela Orlandi e Mirella Gregori no, questo privilegio non è stato concesso: vivere.
Inghiottite dagli intrighi della Guerra Fredda, quando all'ombra del Cupolone i colpi di pistola si alternavano alle guerre di dossier, le due ex ragazzine sono state le protagoniste della festa-evento tenuta il 13 gennaio a Corviale, estrema periferia romana, davanti al murale fresco di pittura con i loro volti, che regalerà brandelli di memoria alle nuove e incolpevoli generazioni. Ma anche un pezzo di memoria alle vecchie, si spera. Ai giudici, agli investigatori, agli avvocati, agli intellettuali di oggi che il tempo di scrivere parole di verità ancora lo avrebbero, volendo. Il bandolo del mistero è lì, a portata di mano. Si trova negli archivi dei giornali, in rete, nei faldoni di indagini trentennali, comprese le ultime, quelle del magistrato Giancarlo Capaldo invitato a farsi da parte nel 2015, un attimo prima che scattasse la mannaia dell’archiviazione.
La verità è affiorata, basta vincere la paura di scottarsi. In tempi recenti è emersa sia sul movente sia sul contesto del sequestro Orlandi-Gregori. La testimonianza del fotografo Marco Accetti, ingaggiato quasi 40 anni fa da una fazione clericale nell’ambito della Guerra Fredda, ha consentito infatti di chiarire che le quindicenni furono prelevate per esercitare ricatti a danno delle alte sfere, al fine di salvaguardare il dialogo con il blocco comunista, nella fase in cui la politica di papa Wojtyla andava in direzione diametralmente opposta. Attraverso l’allontanamento da casa di Emanuela e Mirella, il gruppo di tonache e laici da me denominato “il ganglio” puntava a frenare le false accuse di Alì Agca al Cremlino, indicato come mandante dell’attentato al pontefice. E, da questo punto di vista, il risultato fu raggiunto. Basta osservare la sequenza dei fatti: Emanuela fu indotta con un tranello a non rincasare il 22 giugno 1983 e soli sei giorni dopo, il 28 giugno, il turco ritrattò le sue accuse alla delegazione bulgara in Italia. Sembra pazzesco? Fantapolitica? No, è cronaca. Indizi e riscontri sono numerosi, alcune perizie parlano chiaro, i protagonisti non sono tutti morti. Il dovere della memoria, ecco: quel murale al Corviale potrebbe intitolarsi così.

Fabrizio Peronaci


domenica 14 gennaio 2018

I BASTARDI DI PIZZOFALCONE” PER LA REGIA DI BRUNELLA CAPUTO, DOPO ROMA A SALERNO, AL PICCOLO TEATRO DEL GIULLARE

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di Maria Serritiello
 
 

Proprio uno spettacolo bello, al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, sabato 6 e domenica 7 gennaio. Il pezzo presentato, dal titolo “Vita Quotidiana dei Bastardi di Pizzofalcone è un adattamento teatrale della bravissima regista-attrice e scrittrice Brunella Caputo, tratto dall’omonimo libro, scritto da Maurizio de Giovanni, una gloria nazionale conosciuto in tutto il mondo. Come riescono ad intendersi, Brunella e Maurizio, è cosa risaputa e non solo a Salerno, tant’è che la prima dello spettacolo, in novembre è andata in scena nella Capitale, ottenendo uno strepito successo. Anche questa volta, l’empatia tra i due si è rinnovata e richiesto da ogni parte, lo spettacolo ha replicato, al Teatro del Giullare di Salerno. Del resto Brunella ci ha abituati a spettacoli precisi e puntuali, amorosa nel fare uscire dalle pagine dei libri, i personaggi anche i più biechi. Da brava regista si contorna di valenti attori che come in questo spettacolo, rispondono al nome di: Claudio Lardo, Andrea Blois, Teresa Di Florio, Cinzia Ugatti ed Augusto Landi per interpretare i 7 bastardi: Luigi Palma, Giorgio Pisanelli, Giuseppe Loiacono, Francesco Romano, Ottavia Calabrese, Alessandra Di Nardo e Marco Aragona. Ma in scena c’è un ottavo personaggio che raccorda tutti gli altri ed è Napoli, bozzetti elegantemente porti da Brunella Caputo, questa volta dirigendo se stessa. Va citata, inoltre, la bravura di Virna Prescenzo, per le luci e la scelta delle musiche, un sound mediterraneo, molto efficace, che all’inizio, a sipario chiuso, ha fatto scandire il ritmo ai 7 personaggi, facendoli battere le mani sulle loro gambe.
E parliamone del Redding teatrale di Brunella Caputo, a fronte dell’opera di Maurizio de Giovanni, che ha fatto e fa della sua Napoli la sua musa ispiratrice, sia come teatro/palcoscenico delle sue storie, sia come crogiolo e creatrice di personaggi che la felice vena del Nostro, porta in scena riducendole in altrettante maschere, che poco o niente hanno da invidiare a bautte di altro teatro. La pièce teatrale allestita da Brunella Caputo è relativa alla vita tutta mentale dei protagonisti, del più sperduto degli avamposti ufficiali dello stato, nel tentativo di porre un freno alla dilagante criminalità imperante nella splendida città e nello stesso tempo ridimensionare le intemperanze comportamentali di certi suoi figli arruolati in Polizia, confinandoli nel suddetto distretto di Pizzofalcone. Poche ma dettagliate e precise caratterizzazioni dell’autore, rese con estrema bravura da Claudio Lardo, Andrea Blois, Teresa Di Florio, Cinzia Ugatti ed Augusto Landi, intagliano/ritagliano/stagliano sul palcoscenico altrettanti personaggi/sculture che la Caputo fa emergere dal buio della scena e fa loro raccontare la propria storia, con i propri disagi esistenziali, le proprie angosce, le loro originarie matrici. Ecco così della stessa misura ritratti espressionisti, con tratti di alcuni appena abbozzati, altri delineati con dovizia di particolari, a testimoniare la capacità dell’autore di empatizzare con i suoi personaggi e di leggerne i risvolti psichici più sottili. Trait d’union di queste raffigurazioni o il fil rouge che lega l’attività dei nostri protagonisti è il personaggio principe, Napoli, alfa e omega di tutto, la bella Napoli, la “femmena” a varie ore del giorno, nelle sue strade, nella sua nobiltà d’animo, nella sua sanguinità, nel suo mare sia che placido “connolea” i suoi giovani amanti, sia che, cavalli infuriati e scalpitanti schiaffeggiano violenti i suoi profili. La Napoli della Sastri, del Pino per sempre, dei Carosone e di Eduardo.
Maria Serritiello
 

LIEVITA IL SUCCESSO EDITORIALE DI “BRICIOLE” IL ROMANZO NOIR DEL SALERNITANO ROCCO PAPA

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Fonte:www.lapilli.eu
di Maria Serritiello

Briciole” il giallo di Rocco Papa, scrittore salernitano, sarà proposto venerdì 12 gennaio, alle ore 18, in Vicolo Passariello 9, a Vietri sul Mare. L’incontro è coordinato dal giornalista Aniello Palumbo ed è curato dalla Vetrina della Congrega letteraria, “Il the letterario con libro”. Saranno presenti lo scrittore Carmine Mari e l’assessore alla culturaGiovanni De Simone.
“Briciole” è stato presentato nel mese di giugno, nell’ambito della quinta edizione del Festival della Letteratura di Salerno. Uscito nelle librerie e negli store on- line, il romanzo è edito dalla casa editrice “Ruma” di Padova.
L’autore, classe 1970, sposato con 4 figli, vive e lavora a Salerno come giornalista per una società di comunicazione e produzione tv e collabora con il quotidiano “La Città” per la pagina culturale. Prima di “Briciole”, un giallo ambientato nella città di Salerno, mai evidenziata apertamente, la città, infatti, resta sullo sfondo degli accadimenti, ma se ne intuiscono i luoghi, il mare, le giornate piovose, lo scirocco e perfino la copertina con il suo lungomare in una giornata ingrigita a rivelarne l’identità, l’autore ha scritto altri 4 romanzi, “Il Sangue dei Primi”, “I giorni del male”, “Secondo Natura”, “Operazione Perseo” ma anche racconti che hanno riscosso premiazioni.
La trama del giallo ruota tutt’ intorno alla sparizione, all’apparenza senza nessun motivo, di Elisa, figlia di Giacomo Milite, primario di chirurgia dell’ospedale. L’ispettore Lorenzo Castaldi è incaricato di ritrovarla con le poche notizie che lo stesso padre gli rivela e cioè che   quella mattina doveva sostenere un esame alle nove per poi prendere il treno e tornare a casa.  Dopo aver escluso che fosse un allontanamento volontario per incontrare l’amore di qualche giovanotto, con cui intratteneva una relazione, inizia la tormentata ricerca. Gli indizi, tanti e fuorvianti, si disvelano a mano a mano, come briciole di un ipotetico pollicino e sta alla bravura di Lorenzo Castaldi metterle in fila per risolvere il caso. Si dovrà arrivare alla duecento quarantunesima pagina, tante ne compongono il libro, per conoscere la verità. L’ispettore Castaldi, non si risparmia sul lavoro, vive da solo e da quando sua madre è morta ha imparato a cucinare, trasformando la necessità in passione. Non è sposato, la vita da solo non gli pesava anzi era convinto che la vera libertà consiste nell’essere soli, senza legami, senza nessuno che possa ferirti. Non aver nessuno da perdere è l’unica libertà possibile. Quattro anni prima, al suo rientro, trovò la casa vuota, un biglietto sul tavolo, con accanto l’anello e capì che era restato solo. Antonella Scalzi, avvocato, trentacinquenne, l’aveva conosciuta due mesi prima nel corso di un’udienza. Si piacevano ma nessuno dei due andava oltre, per questo l’ispettore aveva deciso di dare una svolta e l’aveva invitata a cena a casa sua. Per un po’ aveva assaporato la dolcezza di una donna in casa. L’autore descrive l’appuntamento e dà un accenno di vita privata con molta pudicizia, che ben si adatta al carattere schivo dell’ispettore. La prosa del giallo è sciolta, comprensibile e segue passo, passo i personaggi, ti conduce con mano nell’intreccio del racconto e ci si trova senza volerlo nei luoghi e negli intrighi. Nel romanzo si alternano descrizioni che riportano alla città di Salerno, per cui la lettura diventa cosa tua, l’appartenenza al luogo viene fuori prepotentemente. Le descrizioni sono dei piccoli bozzetti lirici, uno per tuti:
“…E’ impossibile spiegare il mare a chi non ci vive accanto. Non potrà mai capire, non potrà mai apprezzare la possibilità di guardare verso l’infinito, spendere i propri sogni dietro l’orizzonte e annegare ogni paura o angoscia nel movimento della risacca. Il mare ti rende umile, inerme di fronte alla forza di una tempesta, insignificante dinanzi alla sua vastità; è una madre che ti accarezza dolcemente nelle giornate limpide, una culla di speranze e di sogni; un padrone duro, che non perdona sbagli e distrazioni, pronto a prendersi anche la vita.  Il mare è un confessore muto, accoglie i tuoi pensieri peggiori e li diluisce, lasciando che le correnti li portino via lontano, per sempre…”
Quale sia il finale non è dato sapere, il giallo lo si può solo apprezzare leggendolo ed è questo l’invito di “Briciole” e del suo autore, il bravissimo Rocco Papa.
Maria Serritiello
 
 
 

sabato 6 gennaio 2018

Ciao Maria, che triste dono per questo giorno


Ti voglio ricordare così, come in questa foto, innamorata e felice con il tuo Paquale, un post di qualche giorno fa, su FB, in cui orgogliosa mostravi la gilera di quando ti sei sposata. E me lo ricordo il giorno del tuo matrimonio, nella chiesa di San Demetrio, avevi solo 15 anni e per sposarti dovesti chiedere la dispensa al Papa, Pasquale, aveva anni più di te,  un mestiere per mantenerti e non volle attendere oltre.

Io ho la tua stessa età e mia madre, assistendo quel giorno alla funzione, si commosse tanto da piangere, perché disse che potevo essere io la sposa bambina e le sembrava che mi si chiudessero presto le porte della vita. Anche quando mi feci la prima comunione, volle una cerimonia completa, un bel vestito, a quei tempi non era così facile, bomboniere, immaginetta, foto, dolci, gelati e confetti. Certo la festa fu fatta in casa, ma non fu manchevole di nulla. La sentii dire ai vari invitati, che si complimentavano della cerimonia "Chissà se mai la vedrò sposare".Un presagio rivelatosi verità.

La tua morte perciò mi ha colpito molto, volevi bene, come tutta la tua famiglia, alla nostra e non era solo per il grado di parentela, ma perché tu come le tue sorelle zia Dora, Angelina e tuo fratello Vittorio, facevate parte di quel mondo buono, dai sani  principi, dalla religiosità attenta e fedele e da quel venire sempre incontro a chi poteva avere bisogno. Tua madre la Sig.ra Filomena, un esempio di dolcezza e di dedizione alla famiglia, quante volte mio padre le portava da rammendare qualcosa (il rammendo ha fatto parte della nostra vita fino agli anni '70) e lei non ha mai detto di no, come suo marito, tuo padre un gran lavoratore.

Ci siamo scambiati gli auguri di Natale, i complimenti per una mia decisione presa in ottobre, ti ho vista fare capolino dalle foto di un ultimo viaggio all'inizio di dicembre ma nulla faceva presagire questo triste epilogo. Io ti ricorderò sempre, sei legata al doppio filo della memoria, saluta i miei cari, ora che li hai raggiunti.

Maria Serritiello


martedì 2 gennaio 2018

Scritti tra novembre e dicembre 2017

Un'eccellente Flavia Palumbo in “Music Hall”, il monologo di Lagarce al Teatro Genovesi  

         flavia palumbo  Fonte www.lapilli.eu

di Maria Serritiello   

 Si potrebbe dare allo spettacolo, Music Hall di Jean Luc Lagarce, tenuto in cartellone per 4 settimane, presso il Teatro Genovesi di Salerno, dalla Compagnia dell’Eclissi, un titolo alternativo: Music hall o della vita darwinianamente intesa, all’interno del mondo del suddetto spettacolo. La pièce è tratta dall’opera editoriale di questo giovane drammaturgo francese, nato nel 1965 e prematuramente scomparso sul finire del secolo scorso, ad allungare la lista dei morti per AIDS. Dopo essere stato presentato nei teatri di tutto il mondo, la sensibilità e la bravura di Flavia Palumbo, unita alla capacità selettiva dei testi della Compagnia Teatrale dell’Eclissi, è stata la volta di Salerno di applaudire la drammaticità tutta contemporanea dell’autore, nel decidere di trattare un tema tanto delicato, forte, attuale, quanto significativo e privato, come può essere per  chi fa della vita un pezzo di teatro. Metafora dell’esistenza, l’opera diventa un esempio di come la mente, ahi noi, riesce molte volte a renderci vittime di meccanismi limitanti e ripetitivi, che ci addolorano l’esistenza, senza offrire possibili vie di scampo ai disagi esistenziali. Nell’ incapacità di aprirsi ad altre potenzialità o di accettare saggiamente la condizione di vulnerabilità, ci  si rifugia, per quanto poteva essere e non è stato, in recriminazioni, per le scelte altrui, anche se amici, che non hanno esitato a lasciare da soli e disperati chi è  capace unicamente di condurre la propria esistenza al limite dei sogni e ai confini della disperazione.

Il personaggio di turno è un’ancor giovane e piacente donna di spettacolo, dietro le quinte di uno sgangherato teatro, che sa già, non avrà spettatori. “Un attore ha bisogno del pubblico e non ci può essere un pubblico se dall’altra parte non c’è un attore”, dice Ugo Zampoli, il regista, e continua “se il pubblico non va a teatro cosa può spingere un attore ad andare ugualmente in scena? Non si può morire dentro senza dare vita ai sogni, e l’attrice lo fa, ricordando a quando, più giovane, riempiva i teatri di ben altra specie, alla carriera, più sognata che vissuta, come attrice di successo. Flavia Palumbo dà vita, con raffinata cura, ad un monologo della durata di un’ora e dieci minuti, che serba in sé eleganza nei movimenti accennati nel ballo, virtuosismo recitativo, sfumature tonali e calda e distesa voce di cui ha fatto sfoggio, senza bisogno di doppiaggio, per cui è stata, di volta in volta, Josephine Backer  e Marlene Dietrich. La scelta dei brani musicali, ripetuti durante la rappresentazione, evocativi di un tempo passato, tra cui: De Temps En Temps, Ich bin die fresche Lola, nobilita e caratterizza l’ascolto e se per un verso è un piacere sonoro per lo spettatore, per l’altro accentua ancor più il clima di decadenza del contesto, evocando là belle époque e restituendo alla protagonista un sogno dal quale destarsi non sarà un piacere. Un testo difficile per il tema trattato, che lascia quel tanto d’amaro in bocca, per la nostalgia che si trascina dietro, ma attuale, per la verità evoluzionistica cui rimanda nel suscitare riflessioni non tutte rincuoranti.
La scena semplice, spartana, riprende un modesto retrostante di un teatro di provincia, in via di precario allestimento, che non fa supporre uno spettacolo imminente, come l’attrice crede e spera. A corredo, una  scala di alluminio appoggiata al tendaggio scuro, dichiaratamente di servizio, con una fune nodosa, appoggiata, aggrovigliata e malaugurante, uno sgabello rosso anche esso di metallo, vita e morte dell’attrice, dove si consumeranno gli automatismi reiterati e ricorsivi della sua memoria, due sediole senza spalliera, un microfono che fa solo bella mostra di se’ ed una toilette, cosparsa da oggetti e trucchi alla rinfusa, come comodo appoggio ai sogni della attrice, ogni volta che rifletterà l’immagine nel modesto specchio, avvolto da una luce che più di tanto non riesce a rischiarare.
In tanto squallore, reso ad arte, rifulge la sentimentalità, la teatralità e la capacità scenica della protagonista. Sensuale ed artista nata, calibrata e isterica quanto basta, istrionica e dolente al punto giusto, malinconica e romantica quando serve, Flavia Palumbo ha fatto, della protagonista, una seconda se stessa. Ironica, furbescamente ammiccante, trattiene incatenato a sé il pubblico cui offre un assaggio continuo della sua capacità di fare teatro. Eccezionale, Flavia Palumbo, in questo monologo che le tira fuori l’anima e, al pari del personaggio interpretato, rivela che il teatro è vita e lo si sceglie sempre, anche senza la presenza del pubblico. Non si esagera nell’affermare che la sua, di questa volta, come tutte le caratterizzazioni   che cesella, le farebbero meritare palcoscenici di ben altro spessore. Ugo Zampoli, il regista, in arte Uto Zahali, non ha fatto fatica a dirigerla, tant’è l’intesa teatrale tra loro.

Maria Serritiello
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Al circolo Canottieri di Salerno lectio magistralis del Maestro Giuseppe Squitieri                     



giuseppe squitieri

Fonte:www.lapilli.eu
di Maria Serritiello

Giuseppe Squitieri, ovvero il pianista docente che prova a spiegare, parlando di memoria musicale, il metodo utilizzato per i suoi allievi, responsabile, secondo lui, dei lusinghieri successi professionali, raccolti nel corso della sua lunga carriera d’insegnante. Il giorno 23 novembre, presso il circolo Canottieri Irno di Salerno, nell’ambito delle iniziative promosse dall’associazione musicale Cypraea, curata dell’ instancabile, Presidente Provinciale, Pina Gallozzi, appassionata docente-pianista, che fa della gentilezza signorile, quanto della sua passione amorevole per i giovani talenti musicali, una sua cifra distintiva e peculiare, il Maestro Giuseppe Squitieri ha svelato l’arcano dei suoi successi professionali come docente, presentando il metodo cui fa riferimento, nello svolgimento della sua attività didattica e precisando, altresì, che quasi certamente non sono molti i colleghi a servirsi di tali strumenti, dal momento che quello da lui utilizzato, non rientra nei canoni ufficiali della scuola. L’importanza della memoria, e ancor più del suo contrario, l’oblio, in ambito musicale, così come nella maggior parte dei comportamenti umani, non ha bisogno di essere elogiata e ricercata, è fondamentale, ci spiega con garbo il maestro. Si deve fare tutto il possibile per potenziare i fattori che ottimizzano tale opzional, come la lunghezza dello spartito da ricordare mentalmente, la frequenza d’uso, il tempo di applicazione, l’omogeneità del materiale e i valori associativi ricollegabili al suddetto pezzo musicale. È proprio nell’ambito dei valori associativi interessantissimo è lo schema Underwood ideato dallo psichiatra americano Frank Bennett nel 1969 che, accanto ai Contenuti Connessi allo spartito, riconosce e amplifica i Contenuti Associativi, tutti mentali, verbali e non verbali, che al suddetto pezzo musicale si associano, per consentire quell’ integrazione tecnico-emozionale che è’ la condizione indispensabile per una performance di livello e qualità superiore. L’accento sulle capacità emozionali, poi, continua a spiegarci il Maestro, ribalta e migliora la vecchia logica musicale, che vuole nel perfezionismo tecnico la dote unica del bravo musicista. Ma non è così e secondo lo schema Underwood, l’aspirante musicista d’eccezione deve imparare a coniugare tecnica ed emozionalità, perché solo in quest’unione è la via maestra a performance di livello superiore. Integrazione che vuol dire connessione a livello neurologico degli emisferi destro e sinistro, detentori rispettivamente della colorazione emotiva e della tecnica motoria d‘applicazione.
Il maestro ha chiarito altresì, che tale metodo, lungi dal voler essere la garanzia per un successo assicurato, resta tuttavia una sorta di passaggio obbligato per chi voglia assurgere alle vette più alte, se madre natura è stata generosa nei suoi confronti, dotandolo di opportuna genetica. Senza la giusta tecnica, probabilmente, pure la genetica può soffrirne. Giuseppe Squitieri ha sempre avvertito il piacere di offrire ai suoi discepoli tutto quanto serve, perché la suddetta genetica possa volare alta ed a giudicare dai risultati c’è da credergli. Non c’è gioia più grande per un Maestro, in questo caso Giuseppe Squitieri, che essere superato dai discepoli e ascoltare il giovane Alessandro Amendola, che ha già dato prova del suo talento nei concerti della Cypraea, concludendo la serata, lo fa presagire. Infatti la trasformazione che il giovane pianista subisce appena suona ha del profetico! Da mite e implume agnello sacrificale, il suo aspetto si trasforma tanto da comandare la tastiera, per cui le sue mani artigli e guanti, uragano e dolce risacca, Clay e Tyson! Un grande grazie al Maestro e al Discepolo per averci dato tanto.

Maria Serritiello
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I fratelli” Gallo” al Teatro delle Arti di Salerno con lo spettacolo “I sette vizi napoletani” 

Fonte:www.lapilli.eu

del 5 dicembre 2017

di Maria Serritiello

“I sette vizi napoletani” dei fratelli Gallo: Gianfranco e Massimiliano, sono stati presentato la sera del 25 novembre al Teatro delle Arti di Salerno, spettacolo che rientra nella programmazione annuale di “Che comico 2017-2918”, direttore artistico Gianluca Tortora. La rappresentazione, molto apprezzata dal pubblico, per la genuinità e la capacità semplice dei due fratelli, figli eredi di quel mostro sacro della canzone napoletana che risponde al nome di Nunzio Gallo, ha proposto brani musicali cantati con bravura (buon sangue non mente) e considerazioni ironiche/satiriche su precise “invenzioni mentali” e linguistico/comportamentali, proprie del popolo napoletano. Ma non è tutto lo spettacolo si è arricchito di amenità socio-culturali, di riflessioni personali e interpersonali sulla società contemporanea, di un toccante “coming out” (Marco Palmieri) ed altresì di veri e propri assoli musicali, come quello d’apertura, affidato alle mani “elettriche” del maestro Antonio Maiello. Gianfranco e Massimiliano Gallo, bella presenza, giacca e gilet a disegnare le siluette misurate eppure informali, hanno acceso il Teatro delle Arti , dando vita allo spettacolo, scritto e diretto da Gianfranco, che altro non è che una revisione umoristica di certi tratti ed atteggiamenti individuali e collettivi riconoscibili copiosamente nella psicologia socio-culturale del popolo napoletano. Uno spettacolo, quello dei vizi napoletani, difficile a dargli una’ etichetta precisa, tuttavia, a voler individuare un fil rouge, lo si deve ricercare nel tentativo dell’autore di scrollarsi di dosso la presenza ingombrante di essere figlio d’arte, etichetta che è facile vedersi consegnare. Un tentativo, il suo, con l’aiuto del fratello, più popolare per le apparizioni in tv, di ritagliarsi una propria autonomia nell’arte teatrale in genere e in quella napoletana in particolare. E pensare che la genetica “vocale” era stata generosa con lui, per cui poteva ambire a seguire le orme paterne ma ha deciso e preteso da sé, una via originale e individuale che senza essere mai banale ha regalato scampoli di buona performance, tra cui la gag a tre sulla presunta religiosità dei napoletani e l’eccezionale interpretazione di “Torna maggio”, un omaggio canoro a Vincenzo Russo, poeta e cantore napoletano, che, senza tema di sbagliare, è una delle più belle versione ascoltate. Il contenuto dello spettacolo nell’intenzione dell’autore, è teso a voler smitizzare la napoletanità vecchio stampo e farsi portavoce di una sensibilità moderna, aperta e attenta alle tematiche dei giorni nostri. Con una scenografia semplice, quasi spartana, ridotta ad un telone ad emiciclo, che ridimensionando il palco, lo ridisegna tutto sugli attori e loro su due sgabelli a turno si esibiscono. Emozionante è stata la dedica al loro padre di una delle canzoni meno celebre del cantante, “Credere”, vincitore di tante gare canore: Festival di Sanremo, Canzonissima, Festival di Napoli e compositore di canzoni successi, una per tutte “Sedici anni”. Il parlato ed il cantato, ben dosato, hanno dato come risultato, uno spettacolo molto gradevole ed il loro alternarsi in scena, per dare il meglio di sé, ogni volta, ha vivacizzato il tutto. Bravi tutti e due, la somiglianza è complice, ma mostra Massimiliano, assurto a fama nazionale per importanti passaggi in tv, come un fratello minore generoso ed affettivo perché nulla fa per rubare la scena al fratello maggiore. Uno spettacolo i “Sette Vizi Napoletani” signorile e dignitoso che ha fatto sorridere e pensare il pubblico, accompagnati da belle canzoni cantate da voci limpide con la modernità giusta e senza dimenticare la tradizione.

Maria Serritiello
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A “Colori Mediterranei” associazione cultural- fotografica la sapiente conversazione del Maestro Armando Cerzosimo 

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del 5 dicembre 2017

di Maria Serritiello

i cerzosimo 3

Colori Mediterranei”, questo il nome dell’associazione culturale fotografica, ha inaugurato la sua nuova sede, il 29 novembre scorso, in via Lungomare Colombo 161, di fronte al Polo Nautico di Salerno. L'Associazione è stata costituita a Salerno l’11 marzo del 2008, dai soci fondatori Claudio Carbone, Enzo Figliolia e Linda Lenza, con lo scopo principale di promuovere socialità e partecipazione, attraverso attività culturali, sportive, turistiche e ricreative, nonché servizi ed attività socialmente utili. L’associazione, inoltre, organizza incontri fotografici" con fotografi professionisti che si raccontano, mettendo a disposizione degli ospiti la loro esperienza, con la possibilità di scambiarsi idee ed opinioni. Ad essere protagonista della serata di mercoledì 29, davanti un pubblico gremito e stipato in ogni dove della sala, è stata la volta di Armando Cerzosimo, supportato dalla famiglia tutta, Pietro ad immortalare l’evento, Nicola a mandare avanti i dispositivi tecnologici, le collaboratrici dell’elegante e nuovo studio di Bellizzi, aperto appena un mese fa, i piccoli eredi: Luca e Vittoria già depositari di tanta sicurezza relazionale da far invidia e per i quali non è difficile prefigurare un radioso futuro circondati, come sono, dalla presenza amorevole e autorevole di genitori attenti, quanto calibrati e sensibili. Quello con Armando Cerzosimo è il quarto incontro, preceduto da Franco Sortini (Fotografia creativa) Paesaggi urbani, Enzo Truppo (Disciplina Sensoriale) Street Photography - Nudo Artistico, Guido Tramontano (Fotografia Paesaggistica). Preceduto da una brevissima presentazione/saluto del presidente l’incontro con l’artista ha inizio. Buio in sala ed ecco che la sua figura si staglia nella luce del pannello, dove a breve s’imprimeranno i capolavori fotografici di Armando. Giaccone lungo abbottonato fino al collo, rigorosamente scuro,  giochicchia con le mani fine e curate, con un cappellino e un paio di occhiali, ricordando un poco figure mitiche del mondo americano, ad esempio Steve Jobs,  con un parlare misurato, pacato eppure appassionato, lento, preciso e formale quanto basta, ha ringraziato quanti gli hanno dato l’opportunità di parlare del suo amore per la foto, della sua vita fatta di pane e fotografia, delle sue scelte, della consapevolezza delle sue motivazioni, del rispetto che nutre per questo suo lavoro, dei suoi obiettivi più arditi e nobili, dei tanti dubbi che lo assillano e della tanta curiosità che lo anima nel tentativo di dare e darsi delle risposte che in qualche modo possano soddisfare le sue aspirazioni di fotografo nato dal basso (bottom -up) a diventare un professionista della foto (top-down), a riuscire cioè a realizzare una sua cifra stilistica per la quale sottrarsi all’invisibilità e diventare riconoscibile, leggibile, individualizzabile. Dopo aver mostrato, a quanti lo avevano accompagnato nella gita a Roma, organizzata dalla stessa Associazione, alcuni scatti per l’occasione, splendidi quelli all’interno della mostra dedicati ad una giovane “associata”, il Nostro ha cominciato a far scorrere sul telone, coadiuvato dal sapiente Nicola autore tra l’altro di un supporto musicale impareggiabile con brani di Bob Dylan e altri grandi nomi, un’ infinita serie di slide di vario genere e di contenuti differenti intervallando considerazioni di carattere a volte tecnico, altre volte estetico e altre volte ancora etico e comportamentale. È tutto un esporre continuo di spunti, suggerimenti, inviti, stimoli, chiose a 360 gradi, mai banali, tutti contrassegnati da un coinvolgimento autentico e appassionato non disgiunto da momenti emozionali.  Nelle due ore usate, senza che ci si accorgesse del tempo trascorso, tutti, ma proprio tutti hanno posto un’attenzione totalizzante sebbene si affrontassero argomenti specificatamene tecnici e forse per questo il suo è stato un felice e fortunato intervento, apprezzato e fruibile.
Durante la conversazione, accanto alle magiche fotografie in bianco e nero, vuoi che fossero reportage, o foto di una sposa degli anni passati, colta in un improvvisato girotondo, di semplice felicità, assieme ad un gruppo di bambine del paese, quasi ad intendere la metafora della sua vita da quel momento in poi, ritroviamo le splendide foto che ritraggono Ruggero Cappuccio, nei suoi palazzi aviti, ascoltando di seguito la parola inarrestabile di Armando, individuando alcuni concetti di come s’intende la fotografia.  
1) La foto è del pubblico
2) Le enormi potenzialità della foto
 3) Il rispetto per la foto
4) L’etica della foto
5) Il rispetto dei canoni tecnici
6) L’asetticità o l’invisibilità del fotografo
7) la necessità dello studio e della curiosità come fondamenti dell’ arte fotografica, una possibile classificazione degli operatori fotografici.  

La foto vostra è di loro” a legare in modo indissolubile il lavorio dello scatto al contenuto della stessa! Ovvero della realtà relazionale dell’uomo forse ancora più reale della carnalità dello stesso, ancorché quasi impalpabile.” Continua col dire il Maestro Cerzosimo  “La foto ha un potere grandissimo”! E per questo richiede rispetto e non solo quello! Richiede rispetto da parte di tutti a maggior ragione da parte di chi la utilizza per lavoro o professione. E richiede studio, passione, rigore scientifico, curiosità. Io sono molto curioso” ha ripetuto più volte nel corso della serata così come più volte ha ribadito il concetto/invito a portare “rispetto.
Rispetto per la relazionalità della nostra esistenza, che vive quasi solo di relazioni di cui la foto può e deve farsi portavoce. Così come deve farsi portavoce della propria individualità che vediamo rispecchiata, nel bene e nel male, negli altri, a volte esaltata, a volte vilipesa, a volte distorta a volte idealizzata. Perciò la foto va rispettata ed eticamente vissuta, nobilitata e amata, compresa ed utilizzata per tutto il benessere che può regalarci. E questo da parte di tutti, professionisti della foto, artisti della foto, fotografi minimi come si è definito più volte alludendo ai colleghi dei matrimoni e il cosmopolitico e coloratissimo mondo degli amatori della foto. E se è vero che tutto questo richiede impegno e dedizione totale è vero altresì che proprio la condizione dell’uomo esige e condiziona in tal senso. Una chiacchierata intensa, profonda, gioiosa, impegnata, sbarazzina, seria, forte appassionata, emozionale e razionale e per ultimo autentica nel suo impegno

Maria Serritiello
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Les Amis du Theatre” recitano per beneficenza “Caviale e lenticchie” alla Colonia San Giuseppe di Salerno 

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dell'8 dicembre 2017

di Maria Serritiello

les amies du theatre

Il 6 ed il 7 dicembre “Les Amis du Theatre”,  presso il teatro della Colonia San Giuseppe, una struttura ricettiva, con funzione propria di colonia, nonché di ospitalità per il soggiorno temporaneo di persone o gruppi che condividono un percorso di fede cristiana, ma anche per un turismo sociale, ospitale e religioso, un gruppo di professionisti con la passione del teatro, coniugata alla beneficenza, hanno messo in scena la divertente commedia di da Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi e Nino Taranto “Caviale e lenticchie”. Un classico dello spettacolo italiano scritta nel 1956 e che ha avuto vari e famosi interpreti, tra cui lo stesso Nino Taranto e Benedetto Casillo. La commedia in tre atti e due tempi è ambientata a Napoli, in una casa in cui vive una famiglia molto povera, ma dignitosa, composta dal capo-famiglia, Liborio La Manna, vedovo, dalla compagna di costui, Maddalena, da una figlia (Fiorella) e da un altro figlio (Filippo). Liborio La Manna, per vivere, è costretto a fare “l’invitato”, cioè si auto-invita ai ricevimenti che la nobiltà Napoletana tiene in varie occasioni e ne approfitta per sottrarre cibarie, dolci e liquori, per poi rivenderli. Le gag sono tante e molto divertenti, il contenuto leggero ha un ritmo molto piacevole che nel finale avrà anche un finale realistico e sentimentale.
Lo spettacolo ha riscosso molto successo fin dalla prima sera, i 250 posti di cui la sala dispone, sono stati tutti occupati. Gli attori, oltre alla soddisfazione per la loro performance, sono stati felici, per la somma accumulata, di poter per poco sollevare il bisogno della mensa dei poveri “San Francesco”. Gli attori tutti bravi hanno ben caratterizzato i personaggi e ci piace citarli singolarmente: Gianni PISCIOTTA attore e Direttore Artistico, Nunzio BRANCACCIO, Saverio CAIVANO, Angelo CHIRICO, Mabel FONTANA Napolitano, Caterina IANNI, Corrado MARINO, Gianpaolo NAPOLITANO, Giovanni NAPOLITANO, Annamaria NAZZARO Rossi, Antonietta ROCCO.

Maria Serritiello
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Due Serate al Teatro Ridotto per ridere con Marco Cristi e Mago Elite in “La magia del cabaret” 

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del giorno 8 dicembre2017

di Maria Serritiello

Dal Teatro Ridotto mancavano da un bel po’ e se ne sentiva la mancanza. Nei 10 anni della nuova sede, tanti di loro erano tornati, ma Marco Cristi e Mauro Casotti, no. E forse non è stato un danno, perché abbiamo tanto desiderato rivederli, scoprire i progressi della loro carriera, come si era sviluppata la loro comicità e come per vecchi amici, sapere di loro, della vita come mena, dei figli divenuti grandi. Il Teatro Ridotto, per la sua piccolezza e per la sua capacità di apprezzare o meno se lo spettacolo funziona, è diventato una culla di battesimo per ogni attore che passa e non è tutto, infatti stabilisce una vera e propria affettività verso gli artisti, li coccola, suggerisce, improvvisa, partecipa, si diverte. Averli ritrovati come li avevo lasciati (n.d.r), solo con qualche chiletto in più per Marco, lo scugnizzo, il più simpatico che ci sia, ci può stare, Mauro invece, uguale, liscio, lustrato, elegante e mani di velluto che muove con la leggerezza di una farfalla. Sono insieme per iniettare nel cabaret la magia ed è stata una bella intuizione per come funziona il binomio. Del resto è stato facile unire le loro forze artistiche, perché amici fin da bambini ed ostinatamente innamorati del palcoscenico. Due mondi diversi ma che testimoniano un’unica passione e loro ce la mettono tutta perché lo spettacolo risulti gradevole e divertente.  Un mix di magia gentile, signorile e di comicità sanguigna, carnale, mai sopra le righe, dove il primo fruitore è il comico stesso, nel senso che le gag si svolgono con il coinvolgimento del pubblico che volentieri partecipa e ride di gusto. Le battute originali, quanto inattese di Marco, si traducono in una risata continua e liberatoria, partecipe e casalinga, aperta e trascinante. Si ride a go-go e si esce contenti e sereni per averlo fatto con leggerezza. Questo è lo spirito comico dello scugnizzo, sicché gli anni che si sono andati aggiungendo, non lo hanno minimamente indebolito, anzi si ride di più perché l’energia messa in campo è inattesa. Ha tutto lo smalto dell’infanzia smagata e libera, cui si concede tutto proprio perché ritenuto ingenuo. Un ragazzaccio impertinente ma pur sempre uno scugnizzo. E si ride, si gioisce in libertà, spensierati, dimentichi per circa due ore, ciò che c’è fuori dal Ridotto. Non si risparmia Marco, appagato di far felice il pubblico che lo applaude calorosamente e tutte le volte gli grida “bravooo”. Se questa è una faccia della medaglia, l’altra è magia gentile, semplice, poetica, in questo contesto, inattesa e inaspettata, per cui sorprende, forse perché si aspettano i tentativi comici del mago improvvisato, che sbaglia ed invece lui non sbaglia. Trasforma intorno a sé ombrelli, lega ad un fil di spago lamette messe in bocca, entra ed esce con la mano da un televisore, canta con una bella voce impostata, parla forbito, veste elegante, giacca di colore vinaccio con bavero intarsiato di pietre nere a forma di piccole cozze, su di una camicia e pantalone neri, un figurino. Tra i numeri che riassumono il suo animo sensibile ce ne sono due che prendono totalmente il pubblico, il primo è la marionetta del piccolo Charlot, che lui stesso, muovendo i fili, anima, il secondo è la poesia della magia, ma prima di metterla in atto ce la racconta mentre lo scugnizzo si siede a terra a gambe incrociate, per entrare anche lui nella narrazione. In un Natale di bambino, Mauro, restò deluso perché avrebbe voluto la neve e non il sole, per cui giurò in cuor suo che da grande avrebbe fatto il mago per avere la neve, a suo piacimento, nel giorno di Natale. Ed ecco che il sogno si avvera e dalle mani del Mago Elite, sul palco del Ridotto e fino alle prime file, una nevicata scende giù, soffiato dal ventaglio di Mauro. L’emozione è forte, mentre incalza la musica, “So this Is Christmas” e l’abbraccio spontaneo dei due artisti, riassume l’allaccio che tutto il pubblico vorrebbe scambiarsi nel condividere il loro.  Potrebbe essere un giorno qualsiasi, magari di un caldo agosto, ma questa soffice nevicata riporta immediatamente al Natale, che ognuno di noi si porta nel cuore. Tornate presto, ragazzi, ci avete davvero emozionati.

Maria Serritiello
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Quirino Farabella, pianista, si esibisce all’ Archivio di Stato di Salerno 

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del 13 dicembre 2017

di Maria Serritiello

quirino farabella

All’Archivio di stato di Salerno, promosso dall’Associazione musicale Cypraea, Presidente Provinciale la Prof.ssa Pina Gallozzi, il giovane pianista, Quirino Farabella, il 6 dicembre scorso, si è esibito su musiche di F. Liszt e S. Rachmaninhov. Quirino Farabella, 18 anni compiuti a giugno, finalista lo scorso anno, nella Rassegna musicale dei giovani talenti pianistici della Campania, fa parte della copiosa nidiata del musicista pianista Maestro Giuseppe Squitieri, che forma. Fronte larga, volto pulito, occhialini da numero primo, sicuro nell’ andatura, come può essere solo chi ha tanta genialità dentro e la giusta consapevolezza della propria condizione, suona piegato sul pianoforte, quasi a volerci entrare dentro. Tra il pubblico, il M. Squitieri segue il suo pupillo, suona mentalmente con lui, anticipandone i passaggi e muovendo il capo con movimenti impercettibili. Anche Papà Farabella è in tensione, l’esecuzione del suo figliolo l’impensierisce, ma si rasserena quando tutte le note sono suonate alla perfezione e coincidono compiutamente con quanto ascoltato innumerevole volte a casa.
La ballata n°2 di F. Liszt è una composizione per pianoforte, scritta nel 1853 e racchiude in sé una triste storia d’amore. Il musicista ungherese, per la composizione di quest'opera, s’ispira al tragico mito di Ero e Leandro, vicenda già narrata da Ovidio nelle Eroidi. Leandro, vive ad Abido e ama Ero, sacerdotessa di Afrodite, che abita sulla costa opposta. A nuoto ogni sera Leandro la raggiunge e l’amata, per aiutarlo ad orientarsi, accende una lucerna. Una notte, una tempesta spegne la lucerna e Leandro, disorientato, muore tra i flutti. All'alba Ero vedendo il corpo senza vita dell'amato, si suicida, gettandosi da una torre.
La triste storia, da Quirino, viene interpretata ed eseguita in modo esemplare, tanto da far captare a chi l’ascolta, tutte le sfumature della storia stessa. Le sue mani veloci sui tasti diventano un‘ampia melodia d’apertura, dolci incontri amorosi, flutti minacciosi e triste finale.
Gli applausi lo richiamano più volte in scena, ma la sua fatica non è finita, c’è la seconda parte da eseguire ed i presenti ascoltare i 6 momenti musicali op.16 di S. Rachmaninhov. Altro bel momento musicale interpretato con preziosità dal giovane pianista di Battipaglia, il quale dedica molte ore (e si sente) allo studio del pianoforte, non tralasciando gli studi dove eccelle parimenti. Il bis è d’obbligo e lui lo concede volentieri.

Maria Serritiello
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Il Maestro Giuseppe Carabetta espone i suoi quadri presso la Lega Navale di Salerno                    

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del 13 dicembre 2017

di Maria Serritiello

villa ravello

Domenica 10 Dicembre, con il Patrocinio Morale dell'UNIPOSMS - Università Popolare Nuova Scuola Medica Salernitana, l'Arch. Aniello Palumbo giornalista e presentatore della serata, si è inaugurata la mostra di pittura del Maestro Giuseppe Carabetta, presso la Lega Navale di Salerno. L’esposizione del Maestro, che durerà fino al 15 dicembre, dalle 17,00 alle 21,00, ha ricevuto, nella serata di apertura, tanti amici affettuosi, tra i quali: il Dott. Vergemino Testa, al Presidente Ing. Fabrizio Marotta, al Consigliere Comunale del P.S.I. Dott. Massimiliano Natella, alla Presidente della Società Dante Alighieri, Prof.ssa Pina Basile, al Prof. Pio Vicinanza, Presidente della Università Popolare Nuova Scuola Medica Salernitana, al Dott. Armando De Martino Presidente dell'Ass. 1 Hospice per Eboli.
L’associazione ultracentenaria Salernitana, sita in Piazza della Concordia, lunga la discesa che porta al Molo Masuccio, non è un circolo, ma un’associazione di lignaggio che si fregia dell’onore dell’alto Patrocinio del Presidente della Repubblica. Gli spazi a disposizione, per le attività, prettamente marinare, sia per giovani e sia  per chi ha ed ha avuto la passione del mare, sono interni ed esterni e richiamano, per il colore di cui sono fatti, immediatamente il mare.
E’ all’interno di questa elegante struttura marina, che fanno bella mostra di sé i quadri del M. Carabetta, che con il mare ha un legame particolare. Tredici quadri, bellissimi, fatti di mare, di sole, di vegetazione mediterranea di colori vivaci, di barche e bianchi scorci che immediatamente trasferiscono la mente nella divina costiera. L’occhio assorbe lo splendore di Atrani, della Torre Normanna, della Costiera Cilentana, del Lungomare di Salerno, della Salerno del 1920, tra gli altri, attaccati alle parete, e si comincia sognare. La pittura di Giuseppe ti far star bene, mette serenità, gioia e allegria per ogni cosa e la natura sempre benigna verso l’uomo, regala colori spontanei. Il cuore ama e sorge improvviso il desiderio di essere là dove la pittura amorevole, ha trasportato l’artista.  Laureato in giurisprudenza, Giuseppe Carabetta, innamorato della costiera e della sua bellezza, può essere definito, senzatema di smentita, il “Costaiolo” del 2000, in opposizione a quelli dell’‘800 e ai loro gran tour per le nostre terre. Positivo, fiducioso e sorridente è sempre disponibile e considera l’amicizia un punto di forza nella vita di ognuno. Un dono è l’armonia della sua pittura, pezzi di vita sua che tramette in modo semplice e spontaneo. Le luminosità dei suoi quadri rendono colorate anche le giornate buie, e ce ne sono.

Maria Serritiello

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29 dicembre 2017